lunedì 15 aprile 2013

DEA FURRINA



NINFE FURRINE

Furrina (in alcuni manoscritti Furina,) divinità romana arcaica di cui all'epoca di Varrone si conosceva appena il nome, legata alle acque e di natura incerta. Eppure a Roma aveva un bosco sacro denominato Lucus Furrinae, o  Lucis Furrinae, sulle pendici del Gianicolo in corrispondenza dell'attuale parco di Villa Sciarra, dove si trovava anche una fonte a lei dedicata. In questo bosco sacro, dove Gaio Gracco si era rifugiato per fuggire ai suoi assassini, visto che lì era assicurata l'immunità in nome della Dea,  si dovè far uccidere dal suo schiavo Filocrate nel 121 a.c. per sfuggire ai suoi implacabili e irreligiosi nemici.

Al culto di Furrina era preposto un flamine minore, il flamine furrinale, il quart'ultimo in ordine di importanza. La sua festività era denominata Furrinalia e si celebrava il 25 luglio.
Secondo altri la festa si eseguiva il 25 agosto, ma per altri ancora le feste erano due ed in queste due date, pertanto una divinità importante.

Le notizie sulla Dea si erano già perdute in epoca imperiale, tanto che cominciò a essere associata alle Furie, sulla base, si dice, della semplice assonanza del nome, ma di questo parleremo tra poco.
Nello stesso periodo, documenti epigrafici attestano che la Dea cominciò ad essere nominata al plurale come Furrinae o nymphae Forrinae.

Questo dipese in parte dal declassamento delle antiche Dee Grandi Madri, cioè trine, della nascita, crescita e morte, in parte perchè laddove la Dea personificava la natura, quelle energie diventavano rappresentate da semidivinità femminili riguardanti la fertilità e la riproduzione in genere.

Pertanto le ninfe furono in parte un ruolo declassato, ma in parte il retaggio di antichissime Dee che avevano le loro particolari ninfe al seguito. Infatti Diana aveva le sue ninfe, ma perfino Athena in epoca remotissima ne aveva.



IL TRAMONTO DEL CULTO

Pur essendo molto innovativi nel mondo del fare e nel tema religioso, i Romani, che accoglievano ogni innovazione tecnica e pure i culti di divinità straniere prima sconosciute, mantennero comunque almeno le vestigia degli antichi culti, specialmente poi per volontà di Augusto che ripristinò sia gli antichi Dei sia i loro templi vetusti, riparandoli e abbellendoli. Tanto è vero che in una lettera di Cicerone al fratello Quinto si apprende che all'epoca Furrina aveva un santuario anche presso Arpino, appunto terra natale di Cicerone.

GIANO FURRINA
Comunque i nuovi Dei avanzavano e nel bosco sacro di Furrina cominciarono ad apparire altri culti, di origine siriaca, che finirono per inglobare quello dell'antica Dea. Questi nuovi culti sono attestati da un'iscrizione in onore di Zeus Keraunios, una a Giove Eliopolitano e un rilievo di Atargatis con due leoni.

Ora Zeus Keraunios era l'antico Dio dei fulmini, anzi una forza, un'energia cosmica alleata di Giove, come espone Eraclito (B64), sicuramente la Atargatis celeste responsabile della luce e dei fulmini, insomma una divinità celeste primigenia, traslocata poi al Dio maschio Baal Zeus.

Zeus Helipolitan era un'immagine del sole vivificante, in genere parte della triade con Venere e Bacco, anch'esso pertanto relativo alla luce mentre Atargatis era una divinità siriaca assimilata ad Afrodite e spesso rappresentata all'inizio come donna-pesce, ma pure come Dea Natura, col suo carro portato da leoni, simile a Cibele, quindi Potnia Theron e pertanto legata alla terra.

Come la luce nel sole e nella luna nasce tramonta e muore per risorgere, altrettanto si esplica nella natura, dove tutti gli esseri viventi hanno un tempo, cioè nascono, crescono e muoiono, lasciando il posto ad altri esseri.



DUMEZIL

Mentre il neoplatonico Marziano Capella, nella classificazione delle sfere celesti e terrestri, collocò Furrina tra gli Dei situati poco sopra le vette delle montagne, altri Dei più importanti, come Giove e Apollo, salirono invece ai cieli più alti, per quel principio squisitamente patriarcale per cui ciò che è più lontano dalla terra è più potente e spirituale, mentre ciò che è più n basso o addirittura poggia sulla terra è una schifezza, principio che passò pari pari alla chiesa cattolica.

Lo studioso Georges Dumézil ritenne poi di aver dimostrato l'originaria natura di Furrina, confrontando l'ordine cronologico delle feste della seconda metà di luglio e i lavori agricoli che l'agronomo Palladio prescrive per quel periodo. Secondo Dumézil la Dea sarebbe stata la patrona delle acque sotterranee e dei pozzi, poi caduta nell'oblìo a causa del potenziamento della figura divina di Nettuno, divenuto in età storica il patrono di tutte le acque, sia quelle di superficie che di quelle profonde.

Dumézil osservò che già Georg Wissowa aveva rilevato come le festività separate fra loro da un intervallo di tre giorni fossero legate da una stessa funzione. In questo caso specifico, il gruppo costituito dalle due festività dei Lucaria (19 e 21 luglio), dai Neptunalia del 23 e dai Furrinalia del 25 si riferisce ai boschi e alle acque correnti.
Una conferma verrebbe dall'etimologia che deriverebbe da una radice *bhr-u-n- che avrebbe dato in gotico brunna ("sorgente") e in antico irlandese tipra ("sorgente", probabilmente da *to-aith-bre-want-), confrontabile con il sanscrito bhurván ("movimento delle acque"). Tracce di questa radice si trovano anche nel greco phréar ("pozzo") e nell'armeno albiwr ("sorgente"; da *blewar- < *bre-w-r).

FURRINALIA
La radice è presente anche in latino, nei termini ferueere ("bollire", "gorgogliare") e defruutum ("vino cotto") e si sarebbe evoluta in *fruur- che per metatesi sarebbe divenuta furr- ma non si sarebbe conservata come sostantivo indicante il pozzo (forse per omofonia con la parola fur, "ladro"), rimanendo però come reliquia nel nome della Dea patrona dei pozzi.

In effetti la derivazione più semplice, e pure più probabile è Furere, cioè essere furioso o veemente, da cui deriva probabilmente anche il nome delle Furie dette appunto anche Furrine.

Oggi si dice ancora "fare le cose con furia" cioè di fretta, quindi con una certa veemenza, che può avere diverse valenze: dalla fretta, all'ardore alla ferocia.

La Furia era anticamente l'ardore nella battaglia, la rabbia scatenata che faceva colpire molti avversari senza neppure percepire i colpi altrui e il dolore delle ferite. La Ecate Furrina era il lato battagliero della Dea, lato infero terrestre e lunare (vedi la figura).

Pomponio - Il ricorrere della forma triangolare con la punta rivolta in basso, emblema della matrice primigenia, evoca la presenza della Triforme Ekate, richiamata dallo strapiombo di Furrina sottostante al santuario dei siriaci che si svolge non per caso secondo una croce regolare dalla quale s’irradia energia acquatica verso i quattro punti cardinali. 

Un’energia quadrifronte, diremmo dunque richiamando dalla memoria l’effigie di Giano. Una e Trina, Ekate-Furrina si moltiplica nelle tre figure scolpite sopra un celebre altarino con in mano anfore, serpe, pugnale e torce: indici di vitalità magica e notturna, sprigionata dalla fonte sotterranea e non a caso imprigionata dai sacerdoti romani durante i Furrinalia, il periodo di luglio in cui la Luna si richiude su se stessa, potente e pericolosa. 

Come Ianus, Ekate è divinità iniziatica, presiede cioè al passaggio (in-ire) da uno stato dell’essere a un altro di segno opposto, a una morte per la rinascita, all’ordalia delle acque che rispondono “sì” oppure “no” alla domanda del velato (miste) introdotto da colui che ha già con-templato il mistero (epopte).

Perciò il teurgo Proclo ha dedicato a Ekate e Giano uno dei suoi Inni più importanti, e che ora, qui, prima di procedere oltre, con calma potenza è il caso di recitare: 

“Salve, o Madre degli Dei, dai molti nomi, dalla bella prole;
salve, o Ekate, custode delle porte, di grande potenza; ma anche a te
salve, o Giano, progenitore, Zeus imperituro; salve Zeus Superno;
rendete luminoso il cammino della mia vita,
ricolmo di beni, allontanate i morbi funesti
dalle mie membra, e l’anima, che sulla terra delira,
traete in alto, purificata dalle iniziazioni che risvegliano la noesi.
Vi supplico, tendetemi la mano, e le divine vie
Mostratemi, ché lo voglio; la luce preziosissima io voglio fissare,
onde m’è dato fuggire la turpitudine della tetra generazione.
Vi supplico, porgetemi la mano, e con i vostri soffi
Me travagliato sospingete nel porto della Pietas.
Salve, o Madre degli Dei, dai molti nomi, dalla bella prole;
salve, o Ekate, custode delle porte, di grande potenza; ma anche a te
salve, o Giano, progenitore, Zeus imperituro; salve Zeus Superno”. 

Ita est. Ma credi sia tutto, Lucio? 

LucioInvero no, Pomponio, lo arguisco dal tuo sguardo. 

PomponioFa’ attenzione ragazzo, stiamo per entrare nella matrice orientale del santuario siriaco, ci stiamo avvicinando al sepolcro dell’idolo imprigionato dalle sette spire. 

LucioNon potrei ascoltarti con maggiore concentrazione. 

PomponioBene. Il ricettacolo triangolare nel quale l’idolo in bronzo dorato è stato posto segnala il potere femminile delle acque, quello di generare e quello d’inghiottire come le paludi stigie nelle quali alcune anime dei trapassati s’immergono per riuscirne sotto forma di uccelli: aves. L’idolo è stretto da sette spire e sette è numero magico che designa i centri sacri dell’organismo specchiati dai corrispettivi astri celesti: tutti prigionieri della serpe, cioè di un fuoco infero. Alcuni hanno voluto vedere nel simulacro un Kronos mithriaco simile al leontocefalo, ma non è così: non ha la testa di un leone, ma sopra tutto nessun Kronos può conoscere l’onta delle braccia legate come accade invece all’idolo siriaco. Ma allora cos’è, Lucio, quest’idolo? 

LucioQuesto mi sfugge ancora, Pomponio, come uno sparviero che fende l’aria del cielo e si allontana senza neppure muovere le ali. 

FESTE ROMANE
PomponioNon è Adone e non è Osiride, non è il Genio del Cosmo (Chaos) né il suo Nume agente (Aion), ma è allo stesso tempo tutto questo. Solo, i sacerdoti che lo immolarono prima di abbandonare il tempio non vollero liberarlo. Al contrario, Lucio: se guardi bene la sua figura la vedrai avvolta da un drappo, come un sudario sepolcrale di quelli scolpiti nei sarcofaghi galilei. 

Chi fece tutto questo non ebbe soltanto in mente la figura di un Lazzaro, voleva fondare qualcosa… e impedire lo smembramento rituale del Nume che fu il Bacco Latino, Dioniso/Orfeo in Tracia, Osiride Egizio, Enea/Sole nel Latium, Romolo/Quirino nella Roma dei Re, Caio Giulio Cesare/Quirino nell’Urbe repubblicana: Dei e uomini divini che con la loro immolazione e apoteosi hanno ritualmente ripetuto il mito antichissimo dell’Unità italica ridotta al molteplice, migrata perigliosamente e finalmente riunita sotto le insegne dei fasci che compongono la doppia scure di Giove Pelasgo. 

Ancora oggi a Roma si conserva un amuleto che appartenne a un sacerdote di quella setta, è una gemma di colore nero un tempo incastonata in un anello, proviene dal santuario siriaco. E’ una pietra incisa che rappresenta il Dio imberbe stretto nella stessa guaina tombale dell’idolo bronzeo e prigioniero delle stesse sette spire. Intorno a lui sono nove stille di sangue rappreso o nove lacrime. 

Dunque un’enneade distribuita in cinque grumi, a destra, simili ad altrettanti cuori e altri quattro, a sinistra, simili ad altrettanti fegati. L’enneade è a sua volta sigillata da due squadre disposte a chiusura su entrambi i lati. In alto, alla sinistra del Dio immolato, è una mano mancina aperta nel segno dell’arresto. 
Alla sua destra è un’asta appuntita paragonabile a quella in legno di corniolo scagliata, sotto insegne celesti e in territorio nemico allo scopo d’impossessarsi di uno spazio per accamparsi – come dice Marco Terenzio Varrone – dai Fetiali romani nel rito che precede il bellum iustum, la giusta guerra. 

Ma l’asta di quella gemma ci avvicina anche al nome del più alto iniziato della confraternita siriaca del Gianicolo: quel Doriphorus pater, o portatore d’asta, il quale dedicò agli Dei di Palmira stanziati sul Colle di Giano (e sopra le acque di Furrina) una piccola ara lunisolare a forma di triangolo (di nuovo Ekate) trovata a suo tempo da un presule e donata a un cardinale che ne ricavò un candelabro, simbolo moderno del focolare (Focus-Larum)."



IL TRIANGOLO SACRO

ECATE FURRINA
Come si vede è femminile, copiato poi dal maschile che pretende di essere prolifico come il femminile.

Bisogna mettersi d'accordo, il maschile può arrogarsi ogni potere, ma non quello di nutrire un feto nel suo ventre, nè di partorirlo, nè di allattarlo.

Se muore una donna dopo aver copulato muore anche il figlio embrionale, se muore il maschio dopo aver copulato, il figlio campa lo stesso.

Il triangolo sacro era perciò anche di Furrina, Dea della vita ma pure delle battaglie e della morte, come lo fu l'antica Dea Bellona.

La Furia della Dea, a cui giustamente vennero collegate le Furie, che in realtà erano anticamente le ninfe del suo seguito, era furia di guerra, di vendetta, ma pure di ardore sessuale, quell'ardore che spinge ogni essere vivente a unire maschile e femminile per creare nuova progenie ed eternare gli esseri della terra..



FURIE

Erano ninfe della vendetta, soprattutto nei confronti di chi colpisce i parenti o i membri del proprio clan. Nacquero dal sangue di Urano, fuoriuscito quando Crono lo evirò, ma successivamente si dissero figlie della Notte. Ciò dimostra che esistettero prima degli Dei Olimpici, in quanto i Titani nacquero appunto da Urano.
Le Erinni sono tre sorelle: Aletto, Megera e Tisifone. 

Furie o Furrine
Venivano rappresentate come geni alati, con la bocca contratta nell'urlo e serpenti al posto dei capelli, pertanto una antichissima Dea della Terra, trina e triforme. 

Esse recano in mano torce o fruste o tizzoni ardenti. Esse punivano i rei di delitti, perchè ogni essere umano era figlio della Dea Madre, ma soprattutto le uccisioni dei familiari o di persone del proprio clan. Il reo veniva inseguito e perseguitato fino a farlo impazzire.

Claudio Claudiano nel De Raptu Proserpinae:
« Fanno lega le Furie, e Tisifone, avvolta di Maligni
colubri, squassa con sinistri bagliori la torcia
e chiama all'esangue raduno gli armati spettri
»

Le Erinni perseguitarono Alcmeone dopo l'assassinio di sua madre e Pentesilea che aveva involontariamente ucciso sua sorella in una battuta di caccia., ma nell'Orestea di Eschilo esse perdono il proprio ruolo mancando alla vendetta del matricidio di Oreste, quando il matricidio era considerato il delitto più grande che mai potesse consumarsi, mentre sono costrette a diventare Eumenidi, cioè benevole. Infatti Oreste non viene punto e da quel momento restano impuniti i delitti contro le donne.


Alcmeone

Alcmeone, nella guerra contro Tebe, ottenuta la vittoria, tornò ad Argo ed uccise la madre, che aveva convinto il marito Anfiarao a partecipare alla spedizione in cui trovò la morte, in cambio della collana dell'eterna giovinezza di Armonia, custodita appunto a Tebe.
Ma la madre, prima di morire, lanciò un anatema contro il figlio, che fu inseguito senza tregua dalle Erinni.

Alcmeone giunse poi alla corte di Tegeo, in Arcadia, il quale re gli fece togliere da Apollo la maledizione. Questi vi riuscì, e Alcmeone sposò Alfesibea, figlia di Tegeo, a cui volle donare la collana e il peplo di Armonia, ma le Erinni ricomparvero, scatenando una carestia tremenda in Arcadia.

Alcmeone si purificò dal Dio del fiume Acheloo, ponendo fine alla persecuzione, ma abbandonò Alfesibea per sposare Calliroe. Questa pretese la collana, che Alcmeone riuscì a farsi restituire, promettendo che l'avrebbe offerta ad Apollo, ma quando il re conobbe i suoi veri intenti, lo fece uccidere dai suoi figli i quali, per vendetta, vennero uccisi per mano dei figli di Alcmeone.

Questo mito rispecchia la lotta tra matriarcato e patriarcato per lo scettro del comando. E' evidente che non si trattasse di eterna giovinezza, perchè Collana e Mantello erano simboli di regalità. Alcmone uccide la madre e dà gli emblemi del potere ad Alfesibea, che però tradisce e consegna le insegne del potere a Calliroe, ma il potere maschile finisce sempre col sangue.

Le Furie erano custodi del potere femminile e della giustizia, a cui i Greci posero fine per sempre.



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